Per scrivere nuove regole bisogna capire il gioco.
Maggio ha visto l’arrivo di una nuova Barbie. Dopo 64 anni, per la prima volta Mattel ha deciso di rappresentare una nuova categoria di persone, introducendo una versione della bambola che infrange schemi e stereotipi.
La nuova versione di Barbie è più bassa, dal busto più lungo e con le orecchie più piccole. Con il naso piatto e gli occhi a mandorla, la nuova Barbie Fashionista ha la sindrome di Down. È nata la prima bambola con una disabilità intellettiva.
La bambola prende ispirazione da Ellie Goldstein, già modella di Gucci Beauty e ha una sola riga sul palmo della mano, un tratto distintivo delle persone con questa sindrome. Potrebbero sembrare piccole inezie – cosa potrà mai fare un segno sul palmo della mano? – ma niente di tutto questo è un vezzo creativo, un dettaglio banale, una strizzata d’occhio per i nerd del giocattolo. È un’attenta riflessione, un tendere la mano a persone che riconoscono quel segno e lo vogliono celebrare.
Che sia la scelta dei vestiti (giallo e blu come simbolo della giornata mondiale della sindrome di Down) o degli accessori (la collana con tre frecce verso l’alto, rappresentativa delle tre copie del cromosoma 21), Mattel ha un piano preciso, parte di una strategia complessa che affonda le sue radici in un terreno per molto tempo rimasto incolto.
“Vogliamo raccontare più storie possibili, vogliamo che tutti possano trovare una bambola che li rappresenti. È questa la direzione: gli stereotipi vanno superati.”
– Andrea Ziella, Head of Marketing & Digital di Mattel Italia
Per Mattel, la nuova Barbie si allinea e incasella in uno schema più grande della semplice iniziativa di marketing. È piuttosto una scelta strategica per coinvolgere le persone, vederle e farle sentire viste. E poi certo, anche (o soprattutto) vendere di più.
Molto più di un giocattolo
Il mondo dei giocattoli non ha sempre colto, per incapacità o per scelta, l’importanza della rappresentazione.
La soffocante retorica del “si è sempre fatto così” ha fatto scivolare i prodotti in categorie preimpostate, chiarendo fin da subito ai bambini e alle bambine cosa fosse giusto per loro e cosa invece non potranno mai essere. L’assenza di rappresentazione di alcune categorie di persone non è un problema individuale, ma una preoccupazione che ci coinvolge come società.
Per le persone più piccole, i giocattoli sono essenziali per molte ragioni, non solo per il piacere di giocare. La presenza, sullo scaffale o nella scatola dei giochi, di persone diverse da quelle che la società ci ha insegnato essere “lo standard” vuol dire insegnare fin da subito ad allargare lo sguardo. Questo esercizio si può verbalizzare, si può comunicare in modo esplicito, certo. Ma alle parole devono seguire i fatti, anche nel gioco.
Una bambola con la sindrome di Down, con l’apparecchio acustico o con la vitiligine, infatti, è il modo più semplice ed efficace per insegnare ai bambini e alle bambine l’empatia, la diversità, l’accettazione. Senza nessuna retorica, lo dice la scienza: giocare con la diversità oggi è vivere meglio domani, specialmente in una società destinata a diventare sempre più variegata e complessa.
Il lavoro di rappresentazione ha effetti su due livelli: per le persone che appartengono a una categoria marginalizzata, vedersi rappresentate vuol dire essere coinvolte. Far pensare “Quella bambola mi assomiglia” è il modo più efficace per reiterare il gioco – e poi l’acquisto – con soddisfazione. Per chi non è una minoranza, invece, aiuta a sviluppare l’empatia, giocando con scenari e situazioni lontani da loro ma non per questo meno importanti.
Scelte di questo genere sono anche economicamente convenienti. Secondo uno studio di YouGov, il 53% delle persone che acquistano un giocattolo almeno una volta l’anno dichiara che è importante che i giocattoli rappresentino la diversità. Il 56% crede che i giocattoli dovrebbero promuovere la discussione sulla diversity & inclusion. Mostrando attenzione a questi temi, la propensione all’acquisto e alla fidelizzazione aumenta in modo significativo.
Mattel lo sa e usa l’inclusività in modo strategico da anni. Ma non è sempre stato così.
Un buon incipit
È il 1959 quando Ruth Handler presenta al mondo Barbie per la prima volta, iniziando a poco a poco a erodere – anche inconsciamente – uno dei mali più trasversali della nostra società: il patriarcato.
Prima di Barbie, le bambine potevano attingere solo a una tipologia di giocattoli, i bambolotti da accudire e con cui giocare a fare le mamme. Il loro destino sembrava segnato già dalla primissima infanzia: dovevano diventare madri amorevoli, sempre e comunque, anche nel gioco.
In questo stereotipo Handler vide un’opportunità e creò Barbie, la prima bambola che non fosse un infante, per far giocare le bambine con la loro versione futura, adulta.
Le bambole divennero non più di porcellana, un materiale rigido, delicato con cui è difficile giocare, ma di plastica, più flessibile e resistente agli urti e alla fantasia. Con lo sguardo torvo, con un viso non perfettamente ovale, la prima Barbie era un passo in avanti verso il futuro.
Negli anni, Barbie è cambiata molto: le sue sembianze si sono adattate ai nuovi standard di bellezza, con sorriso più ampio, occhi brillanti e accesi, lo sguardo dritto, frontale. Guarda dritto davanti a sé, verso un futuro sempre più inclusivo – anche se lei questo ancora non lo sa.
E non è solo una questione di sguardi. Barbie, fin dai primissimi anni, ha sempre lavorato allargando l’immaginario per le bambine: non dovevano essere madri e basta, ma potevano immaginare un futuro come hostess, fashion editor, perfino astronaute. Con una casa a Malibu e una macchina tutta sua, Barbie era pronta a prendersi la sua fetta di torta e voleva ispirare le bambine a fare lo stesso.
Negli anni ‘60 si sono mossi anche i primi passi verso una rappresentazione più vasta, non soltanto dal punto di vista professionale. Fu in quel periodo che la prima Barbie nera fece la sua comparsa sugli scaffali dei negozi, rompendo gli schemi preesistenti e svelando una nuova era di cambiamento nel panorama dei giocattoli. Mattel aveva capito il gioco e stava scrivendo le sue regole.
Possiamo smetterla di parlare del mio corpo?
Nonostante alcuni tentativi e successi verso una rappresentazione più inclusiva, per moltissimo tempo Barbie è stata sempre bionda, alta, magrissima, dalle proporzioni irrealistiche.
Secondo uno studio di Rehabs, una persona, per assomigliare a Barbie nella vita reale, avrebbe dovuto crescere di tre spanne in altezza, guadagnare 12 centimetri sul seno ma perderne 15 nel punto vita. Con un polso minuscolo, incapace di spostare alcunché e il collo troppo sottile per reggere la testa, il corpo di Barbie avrebbe avuto spazio solo per mezzo fegato e un po’ di intestino. Barbie non sarebbe potuta esistere né tanto meno stare in piedi.
In una danza viziosa tra essere influenzato e influenzare uno standard di bellezza irraggiungibile, il brand era rimasto a lungo ancorato a una storia unica.
L’immaginario creato ebbe conseguenze reali sulla vita delle bambine, imponendo standard irrealistici su come dovevano apparire oggi e domani. Le critiche, sempre più rumorose, fecero perdere terreno a Mattel, sovrastato dalle iconiche e innovative Bratz, molto più bold ed extra. Erano la novità e piacevano molto più della versione bionda, edulcorata e perfetta di Barbie.
Era ora di un rebranding.
Nel 2015, Barbie ha cambiato corpo e per raccontarlo ha scelto la copertina del Time, con un titolo provocatorio, segno di un netto prima e un dopo. Non era più magrissima, bionda e perfetta; era una nuova versione di Barbie, più calata nel presente e nella sua complessità. Con l’headline “Ora possiamo smetterla di parlare del mio corpo?”, Barbie ha ampliato un’estetica capace di evolversi su un piano più realistico e moderno.
Alla bambola originale, infatti, si sono aggiunte 3 nuove forme fisiche (tall, petite e curvy), 7 tonalità di pelle, 22 colori degli occhi e 24 acconciature, con nuovi vestiti e accessori.
Da quel momento, Barbie ha sempre abbracciato l’inclusività senza esitazioni. Con iniziative per celebrare il Black History Month o la giornata internazionale dei diritti della donna, la comunicazione si è adeguata al presente prima di altre aziende.
Nella collezione ora sono presenti 35 colori di pelle, 97 pettinature diverse, 9 tipologie di corpo e tanto altro.
La comunicazione si adegua
Un cambiamento radicale che si è esteso anche agli aspetti socioeconomici della nostra realtà. Barbie, infatti, ha preso posizione su tematiche femministe, come dimostra il The Dream Gap Project, un’iniziativa volta a consentire a tutte le bambine di raggiungere il massimo del loro potenziale, oppure la linea Role Models, Barbie ispirate a donne che hanno fatto la storia per motivare ogni bimba (e non solo) a fare lo stesso. In questa narrazione, c’è spazio anche per i padri, non più uno sfondo nelle dinamiche familiari ma rivestono – finalmente – un ruolo attivo, giocando e divertendosi con le figlie in compagnia di Barbie.
Da tempo, la comunicazione di Barbie si è allineata al cambiamento del suo DNA. È forte, ispirazionale, ma con i piedi per terra. Abbraccia il rosa e il biondo come stile di vita, senza dimenticare altre sfumature e colori. Si è riappropriata del suo corpo, dando spazio a corpi diversi, grassi, disabili, razzializzati.
Per anni è stata percepita come stupida, superficiale, troppo bionda per essere interessante. Ma Barbie non si vergogna di quello che è, non ha bisogno di Ken per sopravvivere, non ha bisogno di vestirsi da uomo per dimostrare il suo valore. Può farlo, e lo fa, ma non deve niente a nessuno e per questo, i bambini e le bambine di tutto il mondo continuano ad amarla.
You can be anything, dice il payoff di Barbie. Anche se abbiamo inciampato, abbiamo sbagliato, veicolato il messaggio sbagliato, non è mai troppo per evolverci. Basta volerlo e sapere che l’inclusività non è mai un limite, ma l’obiettivo a cui puntare, per sopravvivere ed emergere.
Non mi sono fatta sentire per un po’ perché ho tanti progetti da seguire, la vita è difficile e a dispetto di quel che si dice delle donne e delle madri in generale, non sono affatto multitasking. Anzi, devo dire che sono un po’ in affanno.
Per le cose buone ci va tempo. Non so se BTL lo sia per voi, ma per me lo è, una cosa buona. È uno spazio che coltivo con cura e che merita la mia attenzione. Insomma, non avrei fatto uscire un numero così-così giusto perché dovevo farlo.
Mi piace ancora pensare che a volte si può.