Breve workout per il pensiero critico: basta farsi una sola domanda.
L’avrai vista un po’ ovunque, l’ultima campagna di Brewdog. Una presa di posizione da parte del produttore di birra scozzese che è rimbalzata prepotentemente da un lato all’altro di internet.
Image via afaqs.com
Brewdog si è auto proclamato anti sponsor della Fifa World Cup, attraverso una serie di affissioni che denunciano le pessime condizioni lavorative durante l’evento e, naturalmente, il fatto che nel paese l’omosessualità sia reato, punibile fino alla pena di morte.
Il produttore di birra ha denunciato le molte morti avvenute durante la costruzione di stadi nello stato del Golfo, sottolineando anche l’uso delle punizioni corporali nel paese. Secondo un’indagine del The Guardian , più di 6.500 lavoratori hanno perso la vita da quando il Qatar ha vinto la Coppa del Mondo nel 2010.
L’azienda ha quindi affermato che i proventi delle vendite durante la World Cup saranno devoluti ad alcuni (non meglio identificati) enti no profit per i diritti umani.
Se fin qui pare una mossa encomiabile e- come ho letto in diversi post stizziti- “adesso ci lamentiamo pure di chi fa beneficienza?”, facciamo qualche passo di lato.
Passo laterale numero 1
Quando abbiamo perso la completa profondità di pensiero nel ricevere una notizia e non provare nemmeno a sentire se ci procura una qualche forma di distorsione cognitiva? Perché un proclama simile, che prende le distanze da una delle manifestazioni sportive più importanti del mondo, da un governo e – in sostanza- da un intero sistema socio culturale dovrebbe avere come conseguenza il boicottaggio.
Invece- surprise! – non c’è alcun boicottaggio. Negli 80 pub in UK Brewdog trasmetterà le partite della World Cup e venderà correttamente la propria birra, così come in Qatar, attraverso un distributore.
La mossa di marketing geniale (sic!) che geniale non è ma può avere un altro sinonimo a scelta tra strumentalizzazione, sciacallaggio, cani maledetti.
Passo laterale numero 2
Non so come dirlo in termini morbidi e perciò non lo farò. Se lavoriamo nell’ambito, siamo CEO, Brand qualcosa, Marketing qualcosa, operatrici e operatori della comunicazione non possiamo non conoscere la differenza tra brand activism e wokewashing, non far emergere questa mancanza attraverso contenuti che sputiamo sulle varie piattaforme (Linkedin in primis) in preda al desiderio di like forsennato. Non è un buon personal branding e dice solo che non abbiamo impiegato mezzo minuto per capire cosa questa notizia ci stava dicendo in realtà.
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Nel mercato odierno, i consumatori vogliono che i marchi prendano posizione su questioni sociopolitiche e temi rilevanti. Quando i marchi abbinano messaggi, purpose e valori con la pratica aziendale a sostegno del sociale, si impegnano in un autentico attivismo creando un maggior potenziale di cambiamento e significativi guadagni in termini di brand equity.
Al contrario, le aziende che scollano i messaggi attivisti dalla pratica, mostrano improvviso interesse nei confronti degli stessi e li usano in maniera interessata, snaturandoli o strumentalizzadoli per trarne profitto, mettono in atto il wokewashing, perdendo poi sul lungo sia in termini economici che di brand equity.
Ora, ci piace tanto fare il confronto tra un ipotetico “noi” e un sempre ipotetico “uomo della strada” (a proposito, come cambia la percezione se facciamo gender swapping e trasliamo l’espressione al femminile, eh? “Donna della strada” ci apre tutt’altro tipo di immaginario) ma quando è successo, esattamente, che abbiamo smesso di farci domande? Com’è che non ci passa manco per l’anticamera di sforzarci e fare due più due?
Produco birra, ho un buon marketing e una buona comunicazione. Mi schiero per i diritti umani contro un evento mondiale che non li rispetta. Ma trasmetto le partite di quell’evento, di fatto, supportandolo. E vendo comunque le birre, a casa e nel paese da cui ho preso le distanze.
Take all the time u need.
Passo laterale numero tre
I diritti umani sono inalienabili. Nella vita quotidiana, professionale, istituzionale e trasversalmente a qualunque categoria di appartenenza, perché appunto, umani.
È sacrosanto denunciare le morti sul lavoro e le condizioni della comunità LGBTQA+ in Qatar, perché quei diritti vengono infranti.
Eppure, la presa di posizione per ciò che succede fuori da casa non dovrebbe andare in contraddizione con ciò che invece faccio succedere dentro casa.
Non più tardi di giugno scorso, in una lettera aperta diffusa su Twitter, 61 ex lavoratori hanno affermato che la crescita vertiginosamente rapida del produttore di birra scozzese aveva comportato tagli alla salute e sicurezza, sposando valori secondo i quali non viveva e creando una cultura “tossica” che ha lasciato il personale affetto da malattie mentali .
“La crescita, a tutti i costi, è sempre stata percepita come l’obiettivo numero uno per l’azienda”, afferma la lettera. “Essere trattati come un essere umano, purtroppo, non è sempre stato scontato per coloro che lavorano in BrewDog.”
Image via campaignasia.com
Perciò, ecco, se i tuoi dipendenti ti accusano di non fornire condizioni lavorative umane e parlano di “cultura della paura”, di bullismo e di esser trattati alla stregua di oggetti, non è una mossa particolarmente etica né furba (sia a livello comunicativo che di marketing) quella di andare a guardare alle condizioni di lavoro di un vicino più o meno lontano che comunque contribuirà a produrre profitto e poi VANTARSENE, facendoci sopra una campagna di finto attivismo.
Per concludere, una riflessione
Abbiamo disperatamente bisogno di allenare il pensiero critico. Di porci una domanda fondamentale, ogni volta che qualcosa ci sembra troppo bella, giusta o etica per essere vera: cosa non funziona?
Qui, era abbastanza facile da capire perché non è il presupposto a esser sbagliato. Le morti sul lavoro, le pene corporali e l’illegalità dei rapporti omosessuali sono in sé fatti gravi e inammissibili. Il supporto alle cause e il devolvere importi in beneficienza a favore delle stesse sono azioni giuste.
Il farlo con proventi derivanti dalla vendita di prodotti durante l’evento incriminato è, invece, opportunismo becero. Raccontarlo senza pensare a un backlash, qui nell’A.D. 2022, miopia nella visione strategica e svalutazione dell’intelligenza dei tuoi stessi clienti o, comunque, di chi possiede una connessione internet in qualunque angolo del mondo.
I tempi del “lava più bianco” sono ormai conclusi. Non basta un claim o una campagna ben progettata a spingere le persone all’acquisto, soprattutto se la leva usata è quella di una qualche causa sociale o ambientale. Le generazioni di consumatori che si avvicendano sul mercato oggi non sono guidate dagli stessi bisogni di quelle di un tempo e pensare che solo chi opera nel terzo settore possa avere un impatto sul cambiamento sociale è anacronistico.
Si può decidere di non farlo, chiaramente. E di fare pubblicità senza scomodare più alti e nobili fini.
Va bene lo stesso, si può fare. È OK.
Non ti è richiesto di avere un purpose e seguirlo praticando azioni concrete: puoi continuare a vendere i tuoi prodotti e servizi facendo buona comunicazione e buon marketing.
Ma se vuoi davvero influenzarlo, quel cambiamento di cui ti riempi la bocca, assicurati di stabilire obiettivi concreti che facciano la differenza sul bene comune, che sia l’ambiente, il gender gap o i diritti umani. Immagino però che essere celebrity per un giorno sui social media sia più allentante, almeno dalle storie che leggo in giro.
In zona promozione annuncio la seconda edizione di “Scrittura Ribelle” in Scuola Holden. È un corso a cui tengo molto e che ho scritto con “gentilezza e rabbia necessaria” e si svolge esclusivamente in classe, a Torino, il 3 e 4 dicembre 2022.
A chi è destinato e cosa si farà durante i due giorni nel dettaglio al link poco più su.
Spero che la tua sia una buona giornata,
la mia fin qui mi pare di sì.