E invece, poi devi dirlo, quel “sì”. Fidati, ti aiuteremo a dirlo.

Dentro a un gruppo Whattsap che raccoglie qualche decina di professioniste (tutte decisamente affermate nel proprio campo), ieri è arrivata una frase che faceva più o meno così:

“Mi hanno invitata a tenere un workshop in [prestigiosa università, punto di riferimento per le materie economiche], unica italiana, è in inglese e voglio dire di no ché l’idea di non essere padrona della lingua mi manda ai matti. Posso prepararmi, ripetere, vedere se ha senso una lezione e poi dire di no.”

Chiaramente, dopo questa affermazione, c’è stata una sequela di: “ma se non tu, chi?”

Perché a pronunciare la prima frase è stata Domitilla Ferrari, che non credo abbia bisogno di troppe presentazioni ma di cui agevolo due righe di biografia- scritte da lei- giusto per esser precisa.

Autrice di “Manuale di resistenza a un lavoro non abbastanza smart” (Longanesi)[oltre a “Due gradi e mezzo di separazione” e “Se scrivi fatti leggere” n.d.a.]. Ho quasi 48 anni e ho un blog da quando ne avevo 29. Ai tempi ci raccontavo i fatti miei. Poi presto ho iniziato a scrivere anche del mio lavoro. Sempre i fatti miei erano. Ho una figlia e una figliastra pre-adolescenti, non ho mai preso la patente ma ho imparato a andare a remi. Lavoro nel marketing. E sono brava a fare quello B2B.

È brava, aggiungo, perché oltre a esser laureata in psicologia del Marketing e Comunicazione e con un MBA in Bocconi, i suoi risultati sono tangibili, e veri, e sotto gli occhi di chiunque. Anche se scrive bio in cui tutto questo viene lasciato fuori.

“My whole life I’ve been a fraud. I’m not exaggerating. Pretty much all I’ve ever done all the time is try to create a certain impression of me in other people. Mostly to be liked or admired. It’s a little more complicated than that, maybe. But when you come right down to it it’s to be liked, loved. Admired, approved of, applauded, whatever. You get the idea.”

Queste parole, invece, sono di David Foster Wallace che non voglio scomodare ma a cui mi aggancio per rimarcare un concetto semplice, basilare e probabilmente banale che è: qualcuno, da qualche parte, apprezza ciò che fai- probabilmente ciò che sei- così tanto da pensare che tu sia la persona giusta per stare esattamente dove sei chiamatə ad essere.

Cioè, lo ripeto anche a me stessa ogni santa volta che sento che la mia intera vita è fraudolenta. Questa sensazione ha un nome ed è un nome che ha iniziato a circolare molto di più negli ultimi anni, quando abbiamo iniziato a parlarne insieme.

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La sindrome dell’impostore ha fatto la sua comparsa nella ricerca nel lontano 1978, grazie al lavoro di Pauline Clance e Suzanne Imes. L’hanno descritta come una sensazione di “falsità nelle persone che credono di non essere intelligenti, capaci o creative nonostante le prove di alti risultati”. Sebbene queste persone “siano altamente motivate a raggiungere i propri obiettivi, vivono anche nel timore di essere scoperte o smascherate”.

Dico che abbiamo iniziato a parlarne insieme perché un altro fattore distintivo è il pensiero di essere le uniche persone a sentirsi così. Per dire, si sentiva così anche la candidata al premio Nobel Maya Angelou e il primo uomo sulla luna, Neil Amstrong.

E, sebbene la sindrome sia piuttosto trasversale, le donne, le donne nere e le persone appartenenti alla comunità LGBTQA+ sono quelle che ne soffrono maggiormente perché sperimentare un’oppressione sistemica in cui la narrativa dominante è che ciò che sei ha minor valore di ciò che è la norma, contribuisce enormemente a instillare ogni sorta di dubbio sulle proprie capacità e sul valore che possiamo generare attraverso il nostro lavoro. Insomma, se il mondo ti dice che sei sbagliatə o che non stai lavorando abbastanza per conformarti allo standard, il problema è di certo il fatto che non sei proprio bravə a. Però puoi ingannarli e puoi far loro credere che. Finché non ti scoprono, chiaro.

Ora, la cultura aziendale ha un peso notevole e aggrava il problema.
Secondo Lean In, organizzazione statunitense con focus sulle donne nei luoghi di lavoro, è meno probabile che le donne vengano assunte e promosse a manager. La sua ricerca del 2019 mostra che per ogni 100 uomini inseriti nelle squadre ed elevati alla dirigenza, solo 72 donne sperimentano la stessa cosa. Gli uomini ricoprono il 62% delle posizioni manageriali, mentre le donne ne ricoprono solo il 38%. E sebbene un terzo delle aziende intervistate da Lean In abbia fissato obiettivi di rappresentanza di genere per i ruoli dirigenziali di primo livello, il 41% non lo ha fatto per i livelli dirigenziali di alto livello.

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Sempre Clance e Imes nel loro studio evidenziavano perché le donne si sentissero in questo modo, spiegando che ciò era dovuto al fatto che il successo delle donne era contrario sia alle aspettative della società che alle loro stesse “autovalutazioni interiorizzate”. Altri studi dell’epoca dimostrarono che le donne erano meno propense degli uomini a credere nella loro capacità di svolgere una varietà di compiti. Il questo senso, quindi, il pensiero pervasivo per le donne è quello di dover trovare un modo per spiegare il loro successo al di là del semplice fatto di aver consapevolizzato la propria capacità come fattore determinante.

È chiaramente più facile non pensare di ambire a determinate posizioni e interrogarsi sul proprio valore quando non si hanno abbastanza modelli di ruolo a cui riferirsi (di nuovo, il caro vecchio concetto di rappresentanza). È più probabile, perciò, che sperimentiamo la sindrome dell’impostore se non vediamo molti esempi di persone che ci somigliano o condividono il nostro background che hanno un chiaro successo nel nostro campo. Ed è così che ci convinciamo che i possibili successi o i traguardi che raggiungiamo, non importa quanto concreti e ovvi, siano incidentali e non ripetibili di proposito.

Il problema è che questa non è in realtà una “sindrome” perché non è una diagnosi medica: è una risposta alla società in cui viviamo. E il problema, di nuovo, parte dalle parole che scegliamo per nominare le cose: con la parola “sindrome” suggeriamo che ci sia qualcosa da curare e che ci sia, soprattutto, qualcosa che devii dalla “normalità”, dal concetto di “sano” e sia frutto quindi di carenze individuali.

C’è ancora un altro punto, forse due da metter sul piatto, però. Il primo: la responsabilità del tuo successo non ha a che fare solo con te. Non partiamo tutti dalla stessa linea di partenza, non abbiamo accesso alle stesse opportunità e non condividiamo le stesse esperienze vissute. Il nostro successo non è semplicemente una questione di quanto ci tiriamo su le maniche. In combinazione con questo assunto c’è il secondo punto: l’idea che l’intelligenza sia un tratto statico e intrinseco.

Alcuni la chiamano  “cultura del genio” (e di questo parlo anche in un intero capitolo di Scrittura Ribelle): l’idea che l’intelligenza, il talento, siano qualcosa con cui nasciamo, non qualcosa che ha carattere di progressività. Il successo legittimo, quindi, richiede un talento innato, piuttosto che un semplice sforzo persistente. Quindi, poiché tutti noi abbiamo la stessa capacità di sforzo – cioè, ognuno di noi ha la capacità di impegnarsi – è ovvio che maggiore è lo sforzo che devi mettere in qualcosa per avere successo, meno intelligenza innata o “genio” possiedi. Mostrare quanti sforzi sono serviti per esser dove sei è molto poco sexy, perché suggerisce che in realtà non possiedi questo genio.

Perciò non ne parliamo e alimentiamo la narrativa mainstream per cui lo sforzo non esiste che porta, inevitabilmente, al consolidamento della stessa cultura del genio che l’ha generato.

Un bel casino.

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Ho idea che per affrontare questi sentimenti di inadeguatezza la cosa più utile da fare sia capire da dove arrivino. E se guardiamo bene, sappiamo già che sono inerenti a una società in cui il nostro valore è misurato dalla nostra produzione che poi è un modo sofisticato di dire, ehm, capitalismo.

Io non so quale possa essere la soluzione ma ho visto quello che è successo ieri, sempre nel medesimo gruppo di Whattsap.
A un problema di natura sociale (come abbiamo visto fin qui) è stata data una risposta sociale, ovvero collettiva e sinergica, basata sulla consapevolezza delle cause del problema stesso e sul fornire soluzioni alternative agli scenari proposti.
Qualcuna si è offerta di dare supporto linguistico, qualcuna ha portato la propria esperienza di “quella volta che hanno chiamato me ed ero terrorizzata e ho fatto così e cosà”, molte hanno semplicemente fornito visioni, scherzato, alleggerito la paura.

E credo davvero che questa risposta, nel parlare apertamente, possa normalizzare il lavoro, lo sforzo, il fallimento, insomma gli alti e bassi che tutte e tutti proviamo, costantemente. Sono piuttosto sicura che Domitilla ci andrà, alla Bocconi, e spaccherà tutto come suo solito.

Chiudo con una frase per me molto importante, di Madeline Albright, purtroppo deceduta ieri.

“C’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le altre donne”.

Non sono particolarmente avvezza a pensare a luoghi futuristici dopo la morte ma, per chi lo è, credo possa far piacere pensare che allora ne esiste uno speculare in paradiso, per le donne che invece si aiutano a vicenda.